Questa settimana traggo spunto da un articolo pubblicato il 18 gennaio 2018 sul sito de www.ilfattoquotidiano.it a firma di Marcello Adriano Mazzola, avvocato e scrittore.

L’articolo era così titolato: GIUSTIZIA E IMPUNITÀ, sottotitolo: La mamma assopigliatutto nei tribunali.

L’avvocato Mazzola commentava una sentenza del Tribunale di Milano relativa all’udienza di una separazione e introduceva il suo intervento descrivendo il contesto:

“Conflittualità tra i coniugi, figli di 8 e 11 anni. Abitazione in comproprietà. Abitazioni dei suoceri confortevoli. Modalità di frequentazione attuali genitori e figli con tempi quasi paritetici. Redditi abbastanza simili. Il difensore del “papà” chiede al tribunale un autentico affidamento condiviso (ratio legis della l. 54/2006), con tempi paritetici, mantenimento diretto, abitazione alternata, sussistendone tutti i presupposti”.

Dopo di che riportava testualmente i termini della sentenza:

“Il giudice attento, intelligente, preparato, ascolta, chiede. Poi proferisce il verbo: “Lei (papà) deve uscire di casa, lo sa?”

Il difensore del “papà” vorrebbe tanto chiedergli: “Epper Dio, mi spieghi perché”. Si gioca invece la carta di riserva (abitazione alternativa in godimento del padre, vicina a pochi metri) e insiste nella richiesta di un autentico affidamento condiviso.

Il giudice proferisce il secondo verbo: “L’orientamento di questo tribunale è che il padre lasci la casa familiare”. Gli viene concessa la frequentazione di un weekend alternato e in settimana qualche spizzico di frequentazione. Ovviamente gli viene pure addossato un assegno perequativo”.

Questo l’intervento e il commento:

Non nel Medioevo né tanto meno nel periodo della Grande guerra o nel dopoguerra, quando i padri erano dediti ad altro e raramente frequentavano e si godevano i figli. E le madri accudivano i figli. Tempi in cui l’unica figura di riferimento era la madre, dominava la scena. Oggi se ci si guarda intorno ci si imbatte in una gamma incantevole (perché è un incanto, è un dono, prendersi cura dei figli: amarli, crescerli, educarli, accompagnarli durante il loro percorso) di padri amorevoli, entusiasti, felici, delicati, pieni di attenzioni verso i figli. Li vedi con il bebè nel marsupio, nello zaino, alla guida dei passeggini, al parco. Saltellanti, scattanti, gioiosi, sorridenti. Ovunque.

Certo, ci sono anche tanti papà inadeguati. Così come tante mamme inadeguate. Sapere dunque che un “papà” in tribunale non abbia pari tutela perché l’orientamento dominante è questo ha dell’incredibile. Perché il papà viene dopo. Sempre. Anche se i figli non sono infanti. Con la supponenza pure di non renderli infranti. Un orientamento assolutamente dominante (rarissimi i provvedimenti di affidamento condiviso paritario) che si pone, a mio avviso, in spregio imbarazzante del sacro diritto di uguaglianza. Che viola, infrange, piega i diritti bigenitoriali e genitoriali.

Ma perché mai un genitore che frequenta i figli continuamente e pariteticamente, se ne prende cura, dinanzi alla separazione deve essere recluso nel recinto del 15% dei tempi di frequentazione. Liberi e uguali? A chi?

La cultura mammista che domina il diritto di famiglia ha trovato recente eco in una incredibile sentenza della Cassazione (sez. I, 14 settembre 2016, n. 18087) in cui ci è stato spiegato che i giudici di merito hanno in realtà proceduto alla “ricerca della soluzione che avesse meglio privilegiato il futuro benessere morale e materiale dei piccoli e la loro serena maturazione psicologica”. Ergo, lo stare (i figli) con la mamma, che si è potuta trasferire sua sponte a centinaia di chilometri. In barba del papà.

I giudici supremi, con indulgenza, hanno invece scritto che “Allo stesso modo, la scelta materna di una sede di lavoro lontana non poteva essere attribuita, semplicisticamente, alla volontà di separare il padre dai figli, o di rendere al primo più difficoltosa la frequentazione dei bambini; si spiegava, invece, in ragione della possibilità di andare a vivere a (…), dove risiedeva la sorella con i suoi figli” e “non sussistevano ragioni per derogare al criterio di scelta ordinariamente seguito, che vedeva i bambini in età scolare collocati in via prevalente con la madre, anche quando, come nella specie, il padre avesse dimostrato eccellenti capacità genitoriali”.

Sentenza che ha indotto subito un eccellente giudice (allora alla sezione famiglia di Milano) a prenderne le dovute distanze spiegando che il criterio guida è il superiore interesse del minore non potendo al contrario trovare applicazione il “principio della maternal preference”, in quanto criterio interpretativo non previsto dagli articoli 337-ter e seguenti del codice civile e in contrasto con la stessa ratio ispiratrice della l. 54/2006 sull’affidamento condiviso (Tribunale di Milano, sez. IX, Pres. Amato, Est. Buffone, decr. 13-19 ottobre 2016).

E spiegando come nel codice civile e nella Costituzione non vi siano norme che attribuiscono preferenza privilegiata alla madre nella collocazione dei figli. Anzi, ci sono proprio studi anche internazionali che hanno portato all’abbandono del criterio della preferenza materna, in favore del criterio della neutralità del genitore affidatario, potendo dunque essere, sia il padre che la madre.

Domina invece ancora indisturbato il criterio della cosiddetta Maternal preference. E quello della paternal diffidence. Chissà cosa ne pensi il Guardasigilli al riguardo”.

Cosa posso aggiungere a questo drammatico quadretto con tanto di cornice che intitolerei: “CORNUTI E MAZZIATI” in quanto descrive alla perfezione sia gli orientamenti dei legislatori che della giustizia italiana, se non che forse sarebbe giunta l’ora di domandarsi se vi sia un nesso diretto tra il dilagare della violenza contro le donne e un senso di pesante frustrazione che molti uomini vivono a seguito del non sentirsi tutelati e difesi nelle contese?

Non sembra anche a voi che la frustrazione si debba considerare non come causa di violenza ma come l’effetto scaturito dall’aver subito o di stare subendo violenza di Stato?

Sia chiaro che il mio parere non intende giustificare alcun tipo di comportamenti criminali o estremisti, ma unicamente puntare un faro sulla natura stessa del problema.

Credo che addentrarsi nell’approfondimento di quelle che io considero essere le radici stesse di un male comune che unisce e non divide gli uomini dalle donne, accomunandoci involontariamente, anzi irresponsabilmente da parte delle istituzioni di cui tutti e tutte siamo ormai vittime, possa favorire una maggiore presa di coscienza da parte di tutti, in primis delle istituzioni.

Istituzioni che stanno facendo involvere il diritto e che prima di legiferare e giudicare nelle aule dei tribunali dovrebbero usare come unico criterio la parità sia di diritti che soprattutto di doveri tra mariti e mogli e uomini e donne, che faranno naturalmente sì che la giustizia potrà finalmente e concretamente diventare uguale per tutti senza differenze di genere, ma soprattutto senza più fomentare reazioni frutto di frustrazioni. Gi.ses

(Ricerche dei testi e responsabilità relativa alla pubblicazione Stefano Lesti, direttore responsabile Sport12.it)

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