Dall’inizio dell’anno abbiamo assistito all’uccisione di quarantuno donne, spesso ammazzate da chi vantava per loro amore.

Il fenomeno del femminicidio sta dilagando sempre più e a nulla serve esibire la rabbia se non si è capaci di intervenire nella cultura “malata” dell’uomo.

La violenza contro le donne è la forma più vergognosa dei diritti umani non osservati. 

Già negli anni Settanta, il movimento femminista richiamò l’attenzione sul fenomeno delle donne picchiate dai mariti e/o dai compagni. Venne denunciata la violenza domestica come il “comportamento abusante in una relazione intima di coppia, quali appunto il matrimonio e la coabitazione”.

Oggigiorno, tale fenomeno dilaga soprattutto alla fine di un rapporto di coppia, se non pienamente voluto da entrambi e non necessariamente interrotto a causa di violenza fisica.

La molla del rifiuto prende il sopravvento nella mente malata di chi lo subisce e attraverso l’azione omicida si pone drasticamente fine alla vita di chi lo ha “causato”: molti uomini sono incapaci di tenere a bada sentimenti distruttivi quali una insana gelosia unita a un senso aberrante cosiddetto “di proprietà”.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità, considera quattro forme di violenza tra partner: fisica, sessuale e psicologica, quest’ultima non è meno devastante delle altre, include sia lo stalking che l’abuso economico.

L’obiettivo è sempre lo stesso: il dominio della vittima.

Uomini fragili e incapaci di riconoscersi come tali annullano con l’arroganza e la forza fisica qualsiasi forma di colloquio con l’altro, eludendo con arroganza le idee e i desideri della compagna e dei figli, in special modo le femmine, coinvolti e, astutamente, sottomettono ai propri scopi chi vantano di amare, inconsapevoli di essere “malati” o peggio ancora di esserlo diventati a causa di stress e pressioni accumulate nel tempo e dovute essenzialmente ad atteggiamenti e e modi errati di vivere, pensare e agire.

Derive letali quanto negative che presto o tardi possono sfociare in vere e proprie patologie di natura psicologica.

Attraverso le forme più subdole costoro riescono a fare presa sulle paure e le debolezze dell’altro negando loro ogni forma di libera espressione e libera manifestazione della partner.

Carnefici astuti, capaci di privare la vittima persino del sostentamento economico pur di renderla sempre più fragile e prigioniera dell’altrui volere, intenzionati persino a nuocere ai figli per restituire alle madri, “ribelli” le loro stesse sofferenze con la “punizione meritata” per la non sottomissione al capofamiglia e alle sue regole.

Nell’ultimo decennio, i casi dei padri che hanno ucciso i figli per rivalsa contro il coniuge, infliggendo un dolore perenne alle madri, hanno suscitato enorme sgomento e di fronte a tali sofferenze la società nazionale non può nè deve rassegnarsi.

Penso alle sorelline Alessia e Livia Schepp o Elena e Diego, i due gemelli uccisi a Milano solo qualche mese fa.

L’estensione della categoria dei comportamenti violenti subiti in famiglia dalle donne è assai più elevata rispetto a quello di essere aggredite per strada da uno sconosciuto. 

Nel 2017 è stata istituita dal Senato la “Commissione d’inchiesta parlamentare sul femminicidio, nonché altre forme di violenza di genere” e solo l’anno dopo si arrivò a depositare la relazione finale con i relativi provvedimenti.

Sempre nel 2017, è uscito uno studio sugli orfani di “vittime di femminicidio”: in Italia, solo negli ultimi quindici anni ci sono stati 1.600 nuovi casi di orfani di madri uccise dai loro padri.

La personalità del carnefice appare violenta e di brutale retaggio della cultura arcaica e patriarcale in cui la donna è ritenuta “proprietà dell’uomo”.

Fin da piccoli, attribuiamo al maschio caratteristiche diverse rispetto alla femmina e crescendo mettiamo in risalto il potere della loro forza fisica e mai curiamo a dovere la parte fragile della loro emotività quasi a non volerla riconoscere da una parte e accettare dall’altra.

“Mostri” creati adeguatamente dalla superficialità della società sia per scarsa morale ereditata che per la corsa frenetica all’acquisizione del proprio ruolo che ancora oggi vede nell’uomo colui che deve tenere testa alla “donna ribelle”.

Soggetti incapaci di relazionarsi con il rifiuto dell’altro e ancora meno, di attuare il necessario cambiamento, più volte richiesto, prima di arrivare al declino della coppia stessa, annullando al primo ostacolo l’importanza del costruire insieme nel rispetto della dignità e dell’amore reciproco, si scatenano verso le donne che calpestate nell’orgoglio femminile, nella loro dignità e nel loro amore, finiscono per subire abusi su abusi attribuendosi spesso le colpe e addirittura sono indotte a giustificare o comunque a sopportare i loro carnefici poichè non si sentono adeguatamente tutelate e protette dallo Stato e dalle leggi.

Mia Martini cantava: “…Gli uomini sono figli delle donne ma non sono come noi” e forse dovremmo essere noi stesse a educarli diversamente…fin da piccoli.  

Il 25 novembre è la giornata internazionale indetta dall’ONU per ricordare tutte le vittime di femminicidio, come se fosse dato per scontato che di uomini in preda ad amor malato si muore! 

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