Da una vecchia finestra cingolante, aperta su un lembo di giardino, una donna, nella piena età della saggezza, osserva dietro il vetro appannato la leggiadria dei candidi cristallini fluttuare dall’alto del cielo cupo fino a posarsi sulla siepe arresa al gelo. 

L’anziana donna rapita dal lento cadere dei fiocchi, rimane lì, in balìa della coltre bianca estendersi al suolo fino a ricoprirlo. Un lieve bagliore si fa spazio nella nebbia fitta, oltrepassa la nube e rianima il grigiore della città ancora assonnata.  

I pensieri della donna rispolverano  il peso della mestizia e improvvisamente ritornano vividi, invadono la stanza e corrono veloci per non essere dimenticati come per la peggiore delle punizioni imposta all’essere umano.   

Lia si rivede come allora, accovacciata sul davanzale della grande finestra siggillata dalle barre di ferro arrugginito. 

Era una dolce e spensierata bambina dai desideri delicati e gli occhi grandi fino a quando la lucentezza genuina di essi, venne improvvisamente violentata dall’essenza sconosciuta del dolore piegato alla cattiveria dell’uomo!

Lia, anche quella volta, persa nel tempo e nello spazio infinito dei ricordi, rimase a contemplare la lentezza dei candidi fiocchi, capaci di rendere il paesaggio immacolato e di nascondere persino il filo nero, temuto da tutti, spinato e lungo.

Aveva fame Lia, ne aveva tanta e il tozzo di pane ricevuto al mattino con il latte annacquato non era stato sufficiente a zittire i morsi dolenti allo stomaco, perennemente vuoto e incapace di essere sedato con le preghiere recitate in silenzio, né con la fantasia volata ai pranzetti luculliani di un tempo preparati dalla nonna.

Già… nonna, sussurrò Lia, fissando lo sguardo sulla coltre bianca infittirsi fino a nascondere il perfido filo del confine che segnava l’area dell’orrore e della morte. 

Sei mesi prima, Lia e la nonna, erano scese dal vagone fetido di latrina tenendosi per mano e impaurite nello sguardo lo avevano lasciato cadere a terra. Accodate agli altri deportati, avanzarono in fila lungo il percorso richiesto, nel terrore del silenzio spezzato dai comandi urlati astiosamente dalle guardie, per lo smistamento degli uomini dalle donne e i loro bambini. 

Lia tremava e per paura di essere tradita dall’emozione inquieta, aveva tenuto stretta a sé la mano della nonna. Uniche superstiti di una bella famiglia di possidenti ebrei, sterminati dai tedeschi nel tentativo di una fuga notturna verso la Svizzera. 

Le deportate e i loro figli, furono fatti entrare in un grande stanzone, freddo e dal soffitto alto. Un pallido raggio di sole fece improvvisamente capolino dai finestroni privi di vetri e illuminò la disperazione presente nei volti di ognuno. 

Venne loro imposto di denudarsi e lasciare al centro della stanza gli abiti e i pochi effetti personali, per indossare un pigiama a righe: sporco, lercio e maleodorante. 

Nessuno osò ribellarsi! Tacque la pudicizia, la dignità calpestata dal disprezzo e persino le lacrime oramai estinte. Lia fece da innocente paravento alla nudità della nonna, rassegnata al volere di chi le aveva strappato tutto, anche la vita! 

L’odio terrificante aleggiò nello stanzone attraverso le urla delle guardie tedesche e nel silenzio delle loro vittime. Rassegnata poi, al taglio dei lunghi capelli, Lia pianse le sue ultime lacrime.

Aveva solo dieci anni quando comprese la potenza infinita della cattiveria, il sapore amaro delle ingiustizie e il valore della libertà.  

Schierati per la “selezione della specie” furono condotti in fila per essere sottoposti al “marchio” e da quel momento, una sequenza di cifre, cancellò l’essenza umana di ognuno. 

Pochi giorni dopo, Lia venne separata dall’amata nonna, condotta a fare la doccia con le altre donne della sua età. Non fecero più ritorno nel lugubre tugurio del dormitorio in cui, corpi stanchi e smorti, affidarono alle impervie dell’oscurità i lunghi sospiri e le poche speranze.  

Lia, ancora alla finestra, osservò il candore della neve con lo stupore ritrovato della sua fanciullezza e presa da spasmo improvviso,  assecondò il desiderio di uscire dal buio tetro del dolore per godere l’ebrezza di un respiro pulito. 

Corse verso l’uscio, cercò di aprire la porta barricata all’esterno e con le blande forze alle gambe ossute, tirò calci e pugni contro la porta ancora chiusa fino ad accasciarsi al suolo nella disperazione delle lacrime ritrovate.

Avrebbe voluto godere della carezza gentile di un semplice fiocco di neve sul volto, respirare aria pulita e perdere lo sguardo oltre il filo nero dove la vita, forse, pullulava ancora delle lusinghe a lei precluse e vietate. 

La neve continuò a scendere lenta e Lia, ancora in lacrime, affidò al suo Dio la preghiera di restituirle la speranza e da quel momento non smise mai di invocarla. 

Lia è ancora alla finestra e i fiocchi hanno smesso di cadere, decide di calzare gli scarponi per avviarsi in giardino e al passaggio infrange la verginità della coltre raccolta al suolo. Si volta indietro e osserva le impronte lasciate, sono tante e ognuna ha ricalcato una forma diversa. Sorride e respira compiaciuta dell’aria frizzantina, pulita. 

Il mondo corre veloce e si tende a dimenticare il peso dei momenti lontani, vissuti nella penombra di sequenze stabilite. Iniziano all’alba nel silenzio di una casa fredda che non sempre custodisce affetti e amore e fino a sera sono ore scandite dai doveri, per i figli, il lavoro, il marito… nella consapevolezza del vero bene, quello della LIBERTÀ!

A Lia con tutto il mio affetto.

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